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Marco Solari - Presidente del Festival Internazionale del Film di Locarno e dell’Ente Ticinese per il Turismo

UNA NOSTALGIA PLACATA?

Il mio rapporto con l’italianità è sempre stato improntato al profondo attaccamento e al fascino per il mondo italiano. Ciò per una serie di circostanze che, nel corso di tutta la mia vita, hanno segnato questo rapporto attraverso la nostalgia, la ricerca, il dialogo e soprattutto, attraverso delle figure di riferimento familiari e di amici illuminati e, conseguentemente, per me illuminanti.La profonda nostalgia della cultura italiana nasce con me, figlio di un ticinese che affronta la prima parte della sua vita a Berna, città - ponte tra la Svizzera tedesca e la Svizzera francese.
Il Ticino, e con esso l’italianità, sono aspetti agognati e conosciuti quasi solo attraverso l’esperienza mediata di chi li ha vissuti. L’italiano è la lingua di famiglia, poiché mio padre scelse di appartenere a coloro che lontano dal Ticino resistettero, obbligando i figli a parlare italiano in casa, a fronte di molti altri ticinesi emigrati che optarono per la via più facile dell’adattamento e dell’integrazione totale nella cultura e nella lingua del posto. Non sarò mai abbastanza grato a mio padre anche per questo. Resta il fatto che, non avendo mai studiato in italiano, non avrei mai potuto affermare che l’italiano fosse la mia lingua madre; o perlomeno, non la sola, con tutte le ambivalenze semantiche e sintattiche che questo comporta.
L’amore per la letteratura italiana e le altre forme espressive dell’Italia – quali il melodramma – sono quindi sempre state il frutto dell’interesse personale e della ricerca di un arricchimento volto probabilmente a placare la nostalgia del Sud. La spinta verso l’italianità non è però solo il risultato di una condizione emotiva, ma anche e soprattutto di eventi e persone che hanno segnato la prima parte della mia esistenza. I ricordi tornano quindi nella Berna degli anni Cinquanta, permeata da sentimenti sovente rudi, addirittura ostili, nei confronti degli italiani, considerati stranieri a tutti gli effetti. Le zuffe tra ragazzi svizzeri ed italiani mi vedevano sempre, unico svizzero, dalla parte degli italiani. Già allora, il mio sentimento di affinità con la cultura e la lingua italiana era sensibilmente sviluppato, non solo dalle mie origini, ma anche dall’immagine degli italiani che si riunivano in gruppo alla stazione di Berna, struggendosi di nostalgia per chi partiva e per chi non arrivava, per dove il treno li avrebbe dovuti portare e soprattutto per il luogo da cui il treno, tanti anni prima, li aveva portati via. Mi sentivo partecipe del loro sentimento, che in casa mia era amplificato da mio padre, allora capo della polizia degli stranieri, che ricordo animato da un atteggiamento attento e umano nei confronti di questi immigrati, come gli attesterà più tardi lo stesso presidente italiano Francesco Cossiga.
Un altro, lungo passo nell’innamoramento definitivo dell’italianità come lingua e cultura avvenne grazie alla mia nonna paterna, che aveva accolto in casa, quale rifugiato durante la guerra, Giovanni Battista Migliori, personaggio di altissima levatura culturale e politica, antifascista cattolico, che fu nel dopoguerra uomo politico di punta della DC e amico di Alcide De Gasperi. Egli trasmise a mia nonna Rita il suo amore per Dante; fu proprio con il volume della Divina Commedia avuto in dono da Migliori che mia nonna mi introdusse nelle tre Cantiche, facendomi amari in particolare la terza. All’università di Ginevra, città permeata dalla presenza di grandi personaggi italiani quali Pellegrino Rossi, Jean-Charles de Sismondi e lo stesso Conte Camillo di Cavour, fu un amico studente italiano appassionato di politica ad introdurmi negli scritti di Bobbio, Salvemini, Gobetti e anche Croce, con il loro insegnamento “Sei quello che hai amato, pensato, vissuto…”. A ventisei anni, la mia prima esperienza professionale mi portò negli anni Settanta a dirigere l’Ente Ticinese per il Turismo. Il settore turistico ticinese era stato fino ad allora assai disorganizzato e basato soprattutto sulle iniziative private delle locali “pro” e dei grandi albergatori d’Oltralpe, che avevano visto nel Ticino un locus amenus di cui sfruttare le potenzialità turistiche molto prima dei ticinesi stessi. L’immagine turistica si basava, oltre che sul paesaggio, su aspetti folcloristici che ogni antropologo culturale definirebbe riduttive ed umilianti (così come umiliante è oggi lo sfoggio imposto di un folclorismo apocrifo e posticcio nei paesi a vocazione turistica del Terzo Mondo).
Fu subito per me chiaro che uno dei primi passi nel rilancio del Ticino turistico andava nella direzione di cambiare questa immagine e ridare dignità al Ticino turistico. La mia sensibilità culturale, il mio profondo rispetto per la cultura italiana e, più in generale, per ogni cultura autoctona, rese facile pensare ad un Ticino non più come “zoccoli e boccalini” ma piuttosto come “Terra d’artisti”, promuovendo il grande patrimonio culturale di cui il nostro Paese è così ricco. Mi incoraggiarono a perseverare su questa strada, a voce e con i loro scritti (sovente di inusuale durezza nei confronti della superficialità del mondo turistico) , intellettuali ticinesi quali Piero Bianconi, Virgilio Gilardoni, Vincenzo Snider, così come il poeta Alberto Nessi e lo scrittore Giovanni Orelli. Più tardi, sarei approdato al Festival del Film di Locarno, ereditando la presidenza e la responsabilità di un evento di grande caratura culturale internazionale e con un’origine, ancora una volta, fortemente votata all’italianità. Da una parte perché il Festival ha, nel suo embrione, la presenza di figure importanti italiane quali Filippo Sacchi, giornalista del Corriere della Sera, scrittore e critico cinematografico che, strenuo oppositore del fascismo sin dalle origini , dovette riparare in Svizzera nel 1943, trovando a Locarno non solo di che dormire, ma anche e soprattutto di che riflettere, discutere e condividere. Il Festival del Film, la cui origine risale al 1946, mostrò sempre un grande interesse verso la cultura, la lingua e il cinema italiano.
Questo si spiega da una parte con la comunanza della lingua e agli intensi rapporti a vari livelli tra il Canton Ticino e l’Italia, e dall’altra con l’attenzione nei confronti della vitalità creativa e innovativa del cinema italiano. Si pensi ad esempio ai film che uscirono nell’immediato dopoguerra, i film del Neorealismo, e a molti grandi maestri italiani della seconda metà del Novecento che furono scoperti, lanciati o confermati a Locarno. Il primo direttore artistico del Festival di Locarno, Vinicio Beretta, era pure lui italiano. Egli ebbe sempre, come lo ebbero in seguito i suoi successori, un occhio attentissimo alla produzione cinematografica italiana, per decenni vivacissima. Nel suo passato più recente, il Festival del Film di Locarno ha avuto due direttori di spicco italiani, “il Principe” Marco Müller e la vulcanica e colta Irene Bignardi. Quest’ultima fu assunta dal Consiglio di amministrazione da me presieduto e, ancora una volta, non è forse stato casuale il fatto che, istintivamente, la mia ricerca di un nuovo direttore artistico si sia in prima battuta rivolta all’Italia. Mi rendo conto, ora che sono giunto alla fine di questo breve racconto decisamente personale, che uno dei fil rouge che ha sostenuto tutta la mia esistenza è stato proprio la ricerca continua dell’italianità, della curiosità verso la sua cultura, di una nostalgia (almeno in apparenza) placata per quello che avevo sempre sentito come il luogo simbolico delle mie radici, a prescindere da dove la vita mi aveva portato, riportato e poi sempre portato indietro. A casa.

Marco Solari,
Presidente del Festival del Film di Locarno
Presidente dell’Ente Ticinese per il Turismo

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