Migrazioni Gli italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra



Autore: Dr. Paolo Barcella, Svizzera
Responsabile scientifico: Prof. Dr. Nelly Valsangiacomo, Svizzera
Referente didattico: Prof.ssa Michela Nocita, Italia

Nel 1973, Antonino sviluppava così la traccia del tema che gli avrebbe permesso di conseguire il diploma di licenza media presso una scuola italiana nel Canton Zurigo: “È parecchi anni che mi trovo in questo paese [...]. All’inizio [...] avevo difficoltà nell’ambientarmi e soprattutto per la lingua. Non avevo amici. Mi sentivo dentro di me come una pecorella sperduta del gregge. Andavo in giro per lavoro e non pensavo a guardare le belle aiuole fiorite e i muretti di siepe. Provavo a chiedere a qualcuno che incontravo e non mi capivano. Soffrivo sempre di più [...]. Incontro una giornalaia, mi saluta, e io pur non avendola capita le rispondo e le chiedo «un giornale dove ci sono le richieste di operai» fu così gentile, ne prende uno lo sfoglia e mi chiede che mestiere fai. Lei stessa telefonò e così mi occupai. Era un lavoro molto duro [...]. Passò del tempo, cominciai ad ambientarmi a fare amicizia con i compagni di lavoro. Mi incoraggiavano molto, per farmi svagare mi portavano in giro. Incominciai a vedere le belle colline, i laghi, le piste da sci. Le vallate di pini con i scoiattoli che bastava far vedere le noccioline venivano dietro saltellando con la loro coda all’insù [...]. Così sono passati ormai dodici anni e spero di ritornare al mio piccolo paesino pur non avendo la bellezza e i doni che sono qui”. Antonino era uno delle centinaia di migliaia di italiani emigrati in Svizzera nel secondo dopoguerra. Come molti altri, in seguito all’introduzione della scuola media obbligatoria in Italia, cercò di recuperare gli anni di studio all’estero: il suo progetto era rientrare un giorno al paese con un bagaglio economico e culturale che gli garantisse una vita migliore. Di tutti quegli emigrati molti rientrarono in Italia dopo periodi più o meno lunghi, molti altri si stabilizzarono con le proprie famiglie in un Paese che, nei diversi tempi della sua storia, gestì in modi differenti e più o meno conflittuali i suoi rapporti con gli immigrati.


Dall’Italia alla Svizzera

Per secoli, la Svizzera fu un Paese d’emigrazione. Una forte testimonianza di poveri migranti dal Ticino che cercavano fortuna in Italia ce la dà il romanzo popolare di Lisa Tetzner «Die schwarzen Brüder» (i fratelli neri), che racconta la difficile vita di giovani spazzacamini. Soltanto verso la fine dell’Ottocento, dopo essere stata un Paese di emigrazione per secoli, la Svizzera rovesciava il proprio saldo migratorio e diventava un Paese di immigrazione. Le guerre mondiali rappresentarono due momenti di svolta rispetto alle politiche migratorie: se al termine del primo conflitto si erano introdotte misure restrittive, il boom economico del secondo dopoguerra favorì la riapertura delle frontiere ai lavoratori stranieri. La Svizzera usciva dal conflitto con il suo apparato produttivo illeso e disponeva di mezzi adeguati per rispondere all’intensificazione della domanda di beni di quegli anni, necessitando solo di lavoratori aggiuntivi. Inoltre, l’impiego di manodopera immigrata a basso costo venne in un primo tempo preferito alla sostituzione dei macchinari più arretrati. Oltrefrontiera, l’Italia messa in ginocchio dal Ventennio fascista e da cinque anni di conflitto bellico disponeva di un abbondante surplus di manodopera, rappresentata da milioni di disoccupati che alimentavano le tensioni politiche e sociali nel Paese. Gli accordi bilaterali del 19481 erano il prodotto di queste opposte esigenze: garantivano infatti un trasferimento di forza lavoro tendenzialmente controllato e salutare per i governi e le classi dirigenti dei due paesi. Sebbene nella Confederazione migrassero anche cittadini di altre nazionalità, gli italiani divennero presto la componente maggioritaria degli stranieri in Svizzera: nel 1950, 140.000 italiani costituivano il 49% della comunità straniera censita, nel 1955 avevano raggiunto le 160.000 unità e il 59% del totale degli stranieri, vent’anni più tardi avrebbero superato quota 570.000. Nel quadro degli accordi del 1948, l’immigrazione veniva concepita come un fenomeno temporaneo e vincolato al lavoro. Ogni candidato all’espatrio doveva anzitutto procurarsi un permesso di lavoro dall’Italia, quindi avviare le pratiche di regolarizzazione che comprendevano l’assegnazione di una dimora, baracca, convitto o appartamento condiviso che fosse. Le lavoratrici e i lavoratori italiani venivano impiegati per alcuni anni come stagionali o annuali prima di acquisire il diritto di risiedere stabilmente nel Paese. Fino alla metà degli anni Cinquanta le donne settentrionali, in particolare nubili, emigrarono più degli uomini, venendo impiegate nei lavori domestici e in rami d’industria come il tessile e l’alimentare (Fig. 1), oppure in agricoltura. Gli uomini, invece, trovavano prevalentemente impiego nell’edilizia e nell’industria meccanica. Le condizioni di vita erano rese particolarmente difficili da una serie di vincoli posti alla mobilità sul territorio, al diritto di cambiare professione e settore d’impiego e, più in generale, dai problemi abitativi, dalla solitudine, dalla precarietà e dalla difficoltà a organizzare una quotidianità. Alcune associazioni e organizzazioni di tutela e autotutela, in particolare le Colonie libere2 e le Missioni cattoliche3, si strutturarono in funzione di quei problemi, svolgendo attività assistenziale, aggregativa e ricreativa. Nonostante le procedure di regolarizzazione definite dalla legge, il diritto di regolarizzare un immigrato, qualunque fosse la sua posizione di partenza, dato alle imprese produsse una gran varietà di vie alternative, percorse dagli immigrati con l’obiettivo di ottenere un permesso.
La storia di Antonino vista in apertura ne descrive una delle più comuni. Numerosi immigrati, infatti, entrarono in Svizzera come turisti, rimasero anche clandestinamente per alcuni mesi, impegnandosi a trovare un datore di lavoro disposto ad assumerli e regolarizzarli. La situazione si modificò nel corso degli anni Sessanta quando un numero crescente di immigrati, dati gli anni di permanenza accumulati, acquisiva il permesso di soggiorno a tempo indeterminato e richiamava la famiglia con cui, anche per mesi o per anni, aveva mantenuto quasi soltanto contatti epistolari (Fig. 2) e, in numero crescente a partire dalla metà degli anni Sessanta, telefonici. Con gli accordi bilaterali del 19644, inoltre, si alleggerivano i requisiti richiesti per emigrare e si facilitavano i ricongiungimenti familiari. Nella Confederazione, aumentava quindi il numero delle famiglie e dei minori, che fino ad allora avevano spesso vissuto divise tra i due Paesi (Fig. 3), rendendo più complessa la composizione della presenza migratoria per genere ed età e diversificandone i bisogni.


Gli immigrati italiani e la scuola

L’incremento delle scuole in lingua italiana tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta era l’evidente segnale del progressivo aumento di bambini e di adolescenti. La natura di questi istituti si comprende a partire da alcuni caratteri specifici dell’immigrazione italiana in Svizzera del periodo, oltre che dall’evoluzione della scolarizzazione italiana di quegli anni. Da un lato, persone che pensavano di trascorrere pochi anni della loro vita all’estero evitavano scelte di radicamento importanti come quella della scolarizzazione dei figli in una lingua diversa dalla loro lingua madre. Dall’altro lato, una massiccia richiesta di istruzione si impose in Italia con l’espansione economica. La legge L. 31-12-1962 n. 1859 istituì la scuola media unica e prolungò l’obbligo scolastico al quattordicesimo anno di età. Molti italiani nati prima degli anni Cinquanta, e partiti per la Svizzera prima del 1962, si ritrovarono in terra straniera senza il titolo di studio ormai divenuto obbligatorio e, quindi, sempre più svantaggiati nell’inserimento sociale e lavorativo. Molti di loro, intenzionati a rientrare presto al paese, decisero di sfruttare il periodo di soggiorno nella Confederazione per adeguare il proprio titolo di studio, frequentando le scuole italiane e l’accordo di riconversione dei titoli scolastici che nel frattempo venne stipulato tra gli istituti privati all’estero e il ministero. Le missioni cattoliche italiane decisero presto di investire risorse nell’ambito scolastico. Sorte con compiti di varia assistenza ai lavoratori, le missioni fecero dell’assistenza ai minori uno dei loro principali obiettivi, prima con la creazione di reti di asili infantili e, in seguito, di scuole elementari e medie.
Come le scuole italiane in Svizzera, nacquero anche in Italia delle scuole svizzere, che a Roma, Milano, Bergamo e Catania continuano tuttora la propria attività.


Xenofobia e conflitto

La quota “improduttiva” di immigrati cresceva insieme alla loro visibilità nei paesi e nelle città. Si moltiplicavano le associazioni di italiani, meno legate a finalità assistenziali perché ispirate dagli interessi culturali, politici e sportivi di una fetta consistente di popolazione adulta ormai stabilmente espatriata e quindi almeno in parte intenta a ricostruire luoghi comunitari in cui condividere la propria lingua, le proprie passioni e i propri giochi. Proprio in ragione della stabilizzazione e del miglioramento delle condizioni di vita generali degli immigrati, a cui si accompagnava un’intensificazione del loro costo sociale, ormai molto maggiore di quello caratteristico degli anni immediatamente successivi al dopoguerra quando gli italiani in Svizzera lavoravano soltanto, si sviluppavano i primi movimenti xenofobi anti-italiani. L’Azione nazionale contro l’«inforestieramento» (Überfremdung)5 nacque proprio nel 1964 e, sotto la guida di James Schwarzenbach6, propose e sostenne iniziative referendarie che miravano alla drastica riduzione della presenza di stranieri – all’epoca ancora in netta prevalenza italiani – nel Paese. Le iniziative, anche se di misura, vennero sempre respinte. Con la crisi economica del 1973 e la grande trasformazione economica che portò l’Italia ad essere potenza economica internazionale, i flussi migratori diretti dalla Penisola verso la Svizzera si esaurirono.


L’essenziale in breve

Nonostante i cambiamenti dei flussi migratori a partire dagli anni 1970, nella Confederazione rimasero centinaia di migliaia di cittadini italiani, di cui, soprattutto tra gli adulti, buona parte coltivava il desiderio di rientrare un giorno in patria per ritrovare le proprie origini, la propria comunità e la propria famiglia. Questi progetti divenivano tuttavia sempre più difficili da realizzare nella misura in cui per i figli e i nipoti, seconde e terze generazioni di immigrati, socializzati all’estero e generalmente con un’altra lingua principale, diventava praticamente impossibile trasferirsi a cercare lavoro in Italia.




Bibliografia:
• MAHNIG H., Histoire de la politique de migration d’asile et d’intégration en Suisse depuis 1948, Seismo, Zurigo, 2005.
• HALTER E., Gli italiani in Svizzera. Un secolo di emigrazione, Casagrande, Bellinzona, 2004.
• CERUTTI M., Un secolo di emigrazione italiana in Svizzera (1870-1970), attraverso le fonti dell’Archivio federale, in “Studi e fonti”, 20, 1994, 11-141.


Letture consigliate:
• CELLA DEZZA E., Nonna Adele. Das Damokles Schwert, Zürich, 2001.
• DE DONNO M.-R., ROCHE S., L’Italienne, Campiche, Orbe, 1998.
• MORASCHINELLI L., L’albero che piange. Testimonianze di emigrazione in Svizzera (1953-1976), Bonazzi, Sondrio, 1994.

1 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I3359-3-13.php
2 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I16495.php
3 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I16496.php
4 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I3359-3-13.php
5 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I17409.php
6 http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/d/D16529-1-3.php

 



Fig. 1: Operaie italiane impiegate presso una fabbrica di conserve alimentari di Frauenfeld (Archivio fotografico ISREC-Bergamo). Le donne provenienti dal Nord Italia costituirono la maggioranza dei flussi tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta.


Fig. 2: Lettera spedita dall’Italia a parenti emigrati in Svizzera (Archivio Missione Cattolica di Lingua Italiana Winterthur). La corrispondenza talvolta conservata in preziosi archivi privati è stata il grande strumento di comunicazione (e alfabetizzazione) per le famiglie di emigrati fino all’inizio degli anni Settanta.


Fig. 3: Fotografia di quartiere scattata alla fine degli anni Quaranta ad Adrano, in provincia di Catania (Archivio privato). All’esclusiva presenza di donne e di minori contribuiva la massiccia migrazione di forza lavoro maschile dalle aree rurali del Sud Italia di quegli anni.


Fig. 4: La Scuola Svizzera di Roma in Via Malpighi. www.scuolasvizzeradiroma.it